Malmö, 24 aprile. Mentre prepariamo i bagagli per Milano, A., il nostro ospite, ci chiede: “Allora, quali parole svedesi avete imparato in questa settimana?”. Ci guardiamo, sorridiamo: nessuna. In compenso, abbiamo comunicato in un inglese parlato con gli accenti più vari, ascoltato siriano, palestinese, pidgin. Abbiamo imparato, o quasi, l’inno nazionale ghanese.

Abbiamo passato questi giorni tra Jönköping, Vetlanda e Malmö in una Svezia parallela: in mezzo alle onnipresenti bandiere gialle e blu, noi abbiamo corso in macchina con musica araba a tutto volume (ma con le cinture di sicurezza allacciate, anche sui sedili posteriori), abbiamo mangiato shawarma e pollo con zatar e patatine fritte. Abbiamo persino bevuto caffé con cardamomo, e il suo profumo penetrante ci ha rimandate indietro nel cortile dei nostri proprietari di casa a Damasco, ormai troppi anni fa.

Abbiamo incontrato tante, generosissime e calorose persone, e in tantissimi ci hanno voluto raccontare la loro vita e la loro esperienza, non solo i tanti siriani di cui vi riporteremo le storie: il portoghese del negozio di telefonia, l’indiano che ci ha venduto i francobolli, i ragazzi ghanesi che ci hanno ceduto la loro stanza per quattro giorni. Non sapevano nulla di noi o del nostro progetto, e tuttavia sono riusciti, con spontaneità, a farci sentire a casa e tra amici, fin dal primissimo istante.

Abbiamo percepito il calore dell’accoglienza naturale e spontanea di immigrati dalle provenienze più diverse, all’interno di un paese dove l’accoglienza burocratica e materiale è garantita, pur con ostacoli e difficoltà, a tanti (non a tutti), ma l’integrazione sembra, se non impossibile, almeno molto difficile: secondo lrilevazione OCSE PIAAC sulle competenze degli adulti (secondo cui la Svezia è tra le nazioni a più alta performance), il divario tra il livello di istruzione degli immigrati e quello dei nativi svedesi è il più elevato tra i Paesi analizzati.

I corsi di svedese son garantiti per tutti, ma la possibilità di trovare un lavoro soddisfacente, e al livello dei propri studi, sembra un’impresa ardua: nelle parole di K., il nostro primo ospite, “un curriculum con un nome che non sembra svedese non viene nemmeno aperto”. L’esperienza di A., E. e S. sembrerebbe confermarlo: ghanesi, laureati con master e specializzazione in Svezia e una cultura vastissima, eppure impiegati nel mercato della frutta e nelle pulizie di un ospedale, si dicono fortunati di aver trovato un lavoro già durante i loro studi e di poter lavorare in Svezia per mandare dei soldi a casa. La domanda resta, però: con le loro competenze, quanto più potrebbero dare alla società di quello che stanno dando adesso, se solo questa glielo permettesse?

Troviamo una Svezia contraddittoria tra accoglienza e gelo. Restiamo con la speranza che, tra i siriani che abbiamo incontrato, chi in questo paese deciderà di ricominciare una nuova vita vi troverà lo spazio per continuare, nonostante tutto, ad essere sé stesso all’interno di questo nuovo sistema. Qui la casa è spesso garantita, ma la vita è tutta da ricostruire.

Svezia Siriani in Transito - 023DSCN0118Svezia Siriani in Transito - 038

A welcoming country

Malmö, the 24th of April. As we’re preparing our luggage for Milan, A., our host, asks: “So, what Swedish words did you learn this last week?”. We look at each other, smiling: not a word comes to our minds. On the other side, we spoke English with a wide range of accents, we heard people communicating in Syrian, Palestinian, Pidgin. We almost learnt the Ghanaian national anthem.

We spent those days across Jönköping, Vetlanda and Malmö in a parallel Sweden: among the omnipresent blue and yellow flags, we ran on a car with Arabic music at full blast (but with our belts fastened, even on the back seats), we ate shawarma, and chicken with zatar and chips. We even drank cardamom coffee, and its penetrating smell sent us back to the courtyards of our landlords in Damascus, too many years ago.

We met a number of generous and warm people, and many among them decided to tell us about their past and their experiences. Not only the Syrians, whose stories we were planning to record, but also the Portugese guy in the mobile phones shop, the Indian who sold us stamps, the Ghanese guys that offered us their room for four days: they didn’t know anything about us or our project beforehand, and yet, spontaneously, they managed to make us feel at home and surrounded by friends, since the very first moment.

We felt the sincere and natural welcome of immigrants, in a country where bureaucratic and material assistance is offered to most asylum seekers (not to everybody), but integration seems to be, if not impossible, at least vey hard. According to the OCSE PIAAC Survey of Adults Skills (which ranks Sweden among the most performing countries), “the difference in literacy proficiency between foreign-language immigrants and native-born Swedes is the largest observed among all participating countries” (p.6).

Swedish language classes are guaranteed to everyone, but the possibility to find a satisfying job corresponding to one’s skills and studies seems to be an hard task: as K., our first host, told us: “nobody even opens a resume, if the name on it doesn’t sound Swedish”. The experiences of A., E. and S. seem to confirm this: Ghanaians, all in possess of a Swedish master’s degree, and of an extraordinary wide culture, they’re employed in food markets and in cleanings. And they call themselves lucky to have found a job during their studies and to be able to work in Sweden and send money back home. The question remains, however: with their specialized skills, how much more could they give to society, if society only allowed them to do so?

We find a Sweden full of contradictions, among welcome and detachment. We hope that, among the Syrians we’ve met, those who will decide to begin a new life in this country will find the place to remain themselves despite all the difficulties. A house might be guaranteed here, but life has to be completely rebuilt.